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il vulcano dimenticato - Lanzafame Macaluso
04-01-15

©  CEDIFOP 2004 tutti i diritti riservati

 

La crociera “Universitatis”: risultati e considerazioni

(Gianni Lanzafame, Domenico Macaluso)


Le complesse interazioni che negli ultimi 25 milioni di anni sono intercorse tra l’Europa e l’Africa, hanno prima portato alla costruzione della catena appenninica. In seguito, quando i due continenti sono entrati in collisione, sul bordo settentrionale del paleo-continente africano, si è prodotta una estesa e profonda lacerazione, orientata NW-SE, obliqua dunque rispetto alla direzione nord-sud lungo la quale convergono l’Europa e l’Africa. La lacerazione è stata ben presto invasa dal mare e, in questo modo, si è formato il Canale di Sicilia. Le fratture lungo le quali si è realizzata l’apertura hanno attraversato l’intera crosta, qui spessa 20 chilometri circa, fino a raggiungere il sottostante mantello e consentire a magmi profondi di risalire in superficie. Ha avuto così origine, a partire da 8 milioni di anni fa, un diffuso vulcanismo, alcalino, peralcalino e tholeiitico, che ha costruito le due isole di Linosa e Pantelleria e numerosi apparati sottomarini, molti dei quali sono ancora sconosciuti. Il vulcanismo è ancora attivo, con eruzioni molto vicine a noi nel tempo, e sembra che dalla zona assiale del canale stia man mano migrando verso occidente e verso settentrione. Quest’ultima osservazione è molto importate dal punto di vista applicativo: fatta salva la scala temporale, la migrazione si traduce in una maggiore implicazione della Sicilia sud-occidentale in fatti tettonici e vulcanici. Per quel che riguarda le eruzioni storiche, per alcune di esse abbiamo solo indicazioni vaghe, altre sono state segnalate ma mai controllate. Possediamo notizie certe solo delle due attività che hanno portato alla formazione delle isole effimere Ferdinandea (1831) e Foerstner (1891).

In generale, a proposito del vulcanismo del canale, le nostre conoscenze riguardano specialmente le porzioni emerse degli apparati (Linosa e Pantelleria). La maggior parte delle eruzioni si sono sviluppate invece sotto la superficie del mare e poco sappiamo, purtroppo, di queste numerose attività sottomarine.

In questo contesto la nostra missione oceanografica si proponeva di ritrovare il vulcano dimenticato di Agrigento e di controllare lo stato di attività del vulcano Ferdinandea. L’intervento era sotteso da una tensione speculativa, ma la spinta ad aumentare ed approfondire le conoscenze di base a proposito dei vulcani studiati, si coniugava con un intento più eminentemente pratico, con cui aveva ampi margini di sovrapposizione: per elaborare scenari di rischio e monitorare un vulcano bisogna innanzitutto conoscerlo.

Il vulcano dimenticato

E’ stata ripetutamente indicata, fin dall’antichità, anche nella letteratura scientifica (da Mercalli G., “I vulcani attivi della terra”, Milano, 1907 a Union Géodesique et Géophysique Internationale, “Catalogue of the active volcanoes of the world”, Edimburgo, 1947), un’attività eruttiva nel mare di Agrigento, a poche decine di chilometri dalla costa. Di queste eruzioni non ci sono prove ma solo segnalazioni, l’ultima nel giugno del 1942. L’area è sede di una cospicua attività sismica, e nelle coste siciliane che le sono prospicienti, spesso in corrispondenza di eventi sismici più energetici (come è avvenuto nel marzo 2003, Mmax=3.2), si rinvengono abbondanti pomici nere vescicolate in grossi elementi. Le analisi petrologiche e geochimiche di queste scorie escludono la loro provenienza dalla Ferdinandea, distante circa 60 km, ed escludono che esse appartengano a qualcuna della attività vulcaniche note e studiate del canale. Tutte queste indicazioni sono coerenti nell’indicare la presenza di un apparato non molto al largo, nel mare a sud-ovest di Agrigento. Studiando le carte nautiche della zona, abbiamo trovato che tutte riportano un bassofondo poco ampio, isolato e rotondeggiante, che da una base profonda 500 m risale fino a 45 m sotto il livello del mare, verosimilmente la sommità di una struttura tronco-conica, regolare, con i fianchi a forte pendenza. Il solo processo geologico che può creare una simile organizzazione morfologica è un’attività eruttiva, ed in relazione a ciò abbiamo pensato di iniziare le ricerche del vulcano dimenticato da questo bassofondo, che avevamo interpretato come l’apice craterico di un apparato vulcanico. Abbiamo condotto le ricerche usando un sistema sonar multibeam per lo studio dell’assetto bati-morfologico dei fondali, un’apparecchiatura di estrema precisione e di sicura applicazione. Purtroppo nella posizione indicata dalle carte, il bassofondo non esiste ed al suo posto abbia trovato fondali a -450 m. Ci ha lasciato perplessi che tutte le carte nautiche consultate, sia quelle italiane sia quella redatte dall’Ammiragliato inglese, riportino questo appariscente errore, ma questa è la realtà. Abbiamo tratto dal nostro lavoro una evidenza negativa, la quale è un risultato anch’esso importante che agevolerà le nostre future ricerche. Il mistero del vulcano dimenticato resta e noi cercheremo di svelarlo prendendo le mosse non dal bassofondo inesistente ma da altri punti di riferimento, come per esempio la distribuzione della sismicità in questa parte del canale e l’andamento delle correnti marine che portano, ripetutamente, le scorie nere sulle spiagge dell’agrigentino.

Il vulcano Ferdinandea.

La nascita dell’Isola Ferdinandea fu annunciata, tra il 22 ed il 26 giugno del 1931, da terremoti, avvertiti fino a Palermo e Marsala e che a Sciacca causarono lesioni alle case e caduta di calcinacci. Poi in successione, il 28 giugno il capitano C.H. Swinburne della marina inglese segnalò di aver “visto un fuoco in lontananza in mezzo al mare”; il 2 luglio l’acqua ribolliva alla Secca del Corallo (oggi Banco Graham), dove alcuni marinai, che raccoglievano il pesce ucciso dalle attività, svennero nelle loro barche a causa delle esalazioni; il 5 luglio forti scosse sismiche furono sentite fino a Marsala; infine, il 7 luglio 1931, F. Trafiletti, capitano del “Gustavo”, 33 miglia a sud-ovest da Sciacca, vede per primo l’isola, alta 30 palmi sul pelo del mare, che “sputa cenere e lapilli”. Di notte l’attività è ben visibile da Sciacca, Memfi, Mazzara e Marsala. L’eruzione, ormai subaerea, continuò per 44 giorni, fino al 20 agosto, costruendo un’isola che risulterà, alla fine, alta 60 m, larga poco meno di 300 m e con un perimetro di quasi 2 500 m. Le attività eruttive interagirono sempre con il mare e il cratere, rotondeggiante, fu sempre invaso dall’acqua, che si abbassava e s’innalzava nel condotto, e traboccando formava un fangoso ruscello che scendeva fino al mare intorbidandolo. Tutto l’edificio era saturo d’acqua. Sui pendii del cono, a 25 m dalla riva, furono descritti due laghetti pieni, il più basso, di acque giallo-solfuree, il secondo, di acque giallo-rossastre, che ribollivano e s’innalzavano gorgogliando fino ad 1 m d’altezza: probabilmente erano crateri secondari, perché durante l’eruzione furono segnalate fino a tre alte colonne di fuoco, che s’innalzavano contemporaneamente. Le esplosioni lanciarono “grossissimi massi” fino all’altezza di 1 lega (5-6 km), ma anche ceneri, polvere fine e pomici nere, che galleggiavano attorno al vulcano. Il materiale espulso diede origine a strane aurore boreali, che avanzando da ponente verso NE, tinsero di rosso cupo i tramonti della Sicilia occidentale e che il 14 agosto illuminarono i cieli di Roma, Firenze, Lucca e Genova. L’eruzione ebbe termine il 20 agosto.

Non furono mai emesse colate di lava, a proteggere le racce incoerenti (scorie, pomici, lapilli) e facilmente erodibili, che erano state eruttate. Pertanto, finita l’eruzione e con essa la costruzione dell’isola, il mare inizia la sua opera demolitrice: già l’8 settembre, 19 giorni dopo la fine dell’attività, l’isola s’abbassa, lentamente ma costantemente; il 27 settembre è ridotta solo ad una collinetta di sabbia nera e fine; il 26 ottobre resta solo un edificio di pochi palmi d’altezza, che nei giorni di tempesta si confonde con il mare, ma che conserva ancora al centro il cratere, invaso da acqua bollente. Il successivo 8 dicembre, il capitano V. Allotta, comandante dello “Achille”, stilò il certificato di morte, annotando che non vi era “vestigia alcuna dell’isola vulcanica”. Permanevano, però, il ribollio delle acque e soffioni che s’innalzano nell’aria. Il mare aveva vinto, ponendo fine alla vita di un’isola effimera ma anche al contenzioso diplomatico, giocato per il possesso dell’isola da Inghilterra, Francia e regno di Napoli, durante il quale si era sentito anche tintinnio di spade, ed a memoria del quale restano i nomi differenti, che ancora oggi contraddistinguono l’isola sorta sul Banco del Corallo, la quale è chiamata Graham in Inghilterra, Julia in Francia e Ferdinandea in Italia. La cronistoria dell’insuccesso della Ferdinandea deve essere completata ricordando che notizie, mai però confermate, segnalarono un’attività sottomarina nel 1833 e la riemersione dell’isola, a pelo d’acqua, per pochi giorni, nel 1863.

I rilievi batimetrici, condotti nel 1883 trovarono, dove prima era sorta l’isola, un vasto basso fondale, da cui si innalzavano due pinnacoli di roccia dura (basalto), verosimilmente i resti del camino d’alimentazione, profondi rispettivamente –2,7 e -3,3 m, i quali furono distrutti con esplosivo a causa del pericolo che rappresentavano per la navigazione. L’Istituto Idrografico della Marina, nel 1914, riportava un fondale di 50 m con due culminazioni allineate NW-SE, profonde -34 m (l’occidentale) e -8 m (l’orientale). Misure eseguite dal Consiglio Nazionale delle Ricerche nel 1972, hanno indicato un basso fondale sub-pianeggiante, tra -20 e -30 m, con al centro una guglia isolata di basalto, che s’innalza fino alla profondità di -8,8 m. L’Istituto Idrografico della Marina, nel dicembre 2002 e nel maggio 2003, ha rilevato il punto più superficiale del vecchio edificio vulcanico, ad una profondità di -6,90 m. Le variazioni nel tempo sono sia positive che negative, quindi non attribuibili all’erosione. Ci sono due possibili spiegazioni per queste discrepanze: errori di misurazione oppure reali variazioni di profondità causate dall’attività del vulcano. Entrambe le ipotesi sono inquietanti e per risolvere l’ambiguità abbiamo costruito un profondimetro munito di un apparato di registrazione in continuo, dotato di un’autonomia di 12 mesi da ancorato sul fondo. Questa importante attività di ricerca e sorveglianza era uno degli obiettivi primari della crociera “Universitatis” ed è stato felicemente portato a termine. Gli altri due obiettivi, altrettanto importanti, erano 1) controllare lo stato di attività del vulcano ed il suo assetto bati-morfologico e 2) prelevare campioni dal fondo. Entrambi gli obiettivi sono stati raggiunti in pieno grazie anche al fatto che la missione oceanografica è stata guidata da un prezioso documento che ci è stato fornito dai colleghi del gruppo di Geologia Marina dell’Università di Bologna, i quali lo hanno redatto elaborando le batimetrie del pavimento marino del Banco Graham, rilevate dall’Istituto Idrografico della Marina. E’ apparso che il Vulcano Ferdinandea non è isolato ma fa parte di un più grande sistema costituito da alcune decine di edifici ben strutturati e di dimensioni comparabili. E’ apparso inoltre verosimile che l’apparato della Ferdinandea e gli altri coni che, numerosi, lo accompagnano, prendano posto su un’unica imponente (25 × 30 km circa) struttura basale, di natura anch’essa vulcanica, grosso modo a forma di ferro di cavallo aperto verso NNE, che proponiamo di chiamare “Archimede”. Questi dati sono stati confermati, precisati ed arricchiti dai rilievi eseguito con la N/O “Universitatis”: il Ferdinandea è alto 150 m, ha un diametro alla base di 500 m ed è accompagnato, poco a nord-ovest, da un cono più grande (base 1500 m, altezza 200 m, apice -16 m s.l.m.). Dalla base di questo secondo edificio scaturisce verso sud-ovest una ben espressa e tozza colata, più larga (3 km) che lunga (1 km); la sommità del cono è costituita dai resti di un vasto cratere (diametro 1 km) con chiari segni di attività eruttiva intra-craterica; il fianco nord-est dell’apparato è segnato, tra 100 e 80 m di profondità, da almeno due fumarole, chiaramente allineate su una discontinuità orientata nord-sud. Le emissioni esalative hanno una portata veramente molto alta e danno origine ad un treno di bolle, le quali salgono per almeno 40 m formando una densa e larga colonna; più in alto la colonna si sfrangia e si assottiglia, pur restando perfettamente riconoscibile fino alla superficie, dove si osservano ancora grosse bolle in risalita.

Le fumarole a portata molto elevata e l’attività della discontinuità orientata nord-sud che le controlla, sono risultati inediti e di primo ordine, che forniscono preziose informazioni sullo stato dei vulcani interessati. Se poi si considera che questi edifici fanno parte del più grande vulcano Archimede, i nostri dati ci inducono ad avvicinare la possibilità di eruzioni alle coste siciliane, fino a una ventina di chilometri da Capo S. Marco e da Sciacca, meno di quanto disti Catania dai crateri sommatali dell’Etna. Le implicazioni con quel che riguarda i problemi di rischio vulcanico, sismico e da onde anomale sono evidenti, così come è evidente la seria necessità di continuare gli studi che noi abbiamo cominciato con la crociera “Universitatis”.